Vale la pena rievocare l’odissea tragica di Beatrice Cenci (1577-1599) celebre nobildonna romana, vittima delle angherie paterne e protagonista di un caso giudiziario alla fine del Cinquecento sotto il pontificato di Clemente VIII Aldobrandini. Accusata di essere l’ispiratrice di una congiura familiare che aveva portato alla morte del violento e dissoluto padre Francesco, Beatrice venne condannata dalla giustizia pontificia nonostante il favore popolare. Fu decapitata l’11 settembre 1599 davanti a Castel Sant’Angelo, in presenza di una folla sterminata tra cui, pare, fossero presenti Caravaggio, Orazio Gentileschi e l’allora bambina Artemisia Gentileschi (anch’essa vittima designata di uno stupro da parte di Agostino Tassi).
La sua leggendaria figura, più volte evocata da scrittori e registi viene rieditata nella personale di Franco Cenci Una storia ritrovata, presso la romana galleria Acta International (fino al 20 dicembre, a cura di Manuela De Leonardis). Bisogna sottolineare subito che l’intera ricerca dell’artista è puntellata su una matrice che fa della memoria individuale e collettiva il punto di snodo di una indagine conoscitiva e riflessiva della complessità psicologica. In tutto il suo lavoro, Cenci rimarca quanto passato e presente si avvicendino in una evoluzione costante e senza tregua: gioca con tutte le possibilità che l’orizzonte formale gli consente per interferire con la storia.
In Una storia ritrovata Cenci, suggestionato dalla omonimia con Beatrice, fa progredire una sorta di ricostruzione mnemonica del personaggio iniziata fin dal 2004 e su essa fa convergere un variegato work in progress, scandito in un sorprendente mix-media che va oltre la pura curiosità storica. Sia pur basandosi sui dati storici pervenuti (tra cui la biografia della malcapitata stesa da Corrado Ricci) intorno alla feroce vicenda rinascimentale, l’artista si sbilancia nel ricomporre ciò che probabilmente sfugge a tutte le ricostruzioni: la componente psicologica della figura femminile.
Nella mostra, infatti, presenta una serie di concertati paesaggi, fragmenti emotivi estirpati alla terra sabina dove avvenne l’esilio di Beatrice. Le immagini fotografiche della desolata campagna, volutamente riprese in brumose e grigie atmosfere, riportano quella verosimile solitudine vissuta dalla nobildonna non ancora ventenne e quella aura di atroce costrizione che l’infelice giovinetta dovette vivere nella cupezza della Rocca di Petrella Salto nella quale era stata segregata. La fascinazione dell’artista è più mirata alla digressione psichica e allo spessore empatico che alla registrazione dei puntelli storici. E, nell’estro di una immaginazione che fondamentalmente tenta di «entrare» più intimamente possibile nel personaggio, Franco Cenci va oltre la storia e compone dei fake, immagini fotografiche che assemblano realtà e fantasticheria per tratteggiare probabili dettagli (perduti), del racconto biografico. Le piccole fotografie «inverano» oggetti e scritti cinquecenteschi. Nonostante ciò, l’artista rievoca l’intero excursus della breve biografia dell’eroina attraverso l’ideazione di bellissime sculture in ceramica, realizzate in collaborazione col maestro Fosco Micheli, che si concatenano in dieci stazioni narrative. I fondi chiari delle formelle sono scalfiti da disegni epidittici, in cui il bassorilievo delle figure esplica chiaramente un rimando formale agli ex-voto e, al tempo stesso, scandisce fluidamente l’iter degli eventi.
Una strategia narrativa che, in modo sofisticato, sembra prediligere l’elemento vernacolare del racconto e staccarsi nettamente dalla molteplicità delle narrazioni che, nel corso dei secoli, sono stati dedicati a Beatrice Cenci. Indimenticabili fra gli altri il dramma I Cenci di Antonin Artaud del 1935 e i cult Beatrice Cenci di Lucio Fulci del 1969 e di Riccardo Freda del 1956. Non dimenticando ovviamente Percy Shelley, Stendhal, Alexandre Dumas e Alberto Moravia ed altri ancora. È certo che la rievocazione estetica di Beatrice, oggi, riavvita e problematizza inequivocabilmente la questione del femminicidio.
Beatrice è una figura che oggi più che mai raggomitola la violenza di genere che tutte le società patriarcali hanno usato e continuano a usare come forma di punizione e controllo sociale sulle donne. Dall’abuso paterno fino alla sua decapitazione, la vita turbolenta e infranta di Beatrice implica una complicità sociale che non assolve la crudeltà e la parzialità di una atavica cultura misogina.