di Manuela De Leonardis
Coincidenze che si intersecano, rafforzate da un denominatore comune: il cognome Cenci. Un interesse, quello di Franco Cenci, per le vicende di Beatrice che parte da un desiderio di ricerca delle radici.
– Mi ha sempre incuriosito, spiega l’artista, la possibilità di scorgere qualcosa che mi appartenesse. La memoria è qualcosa che sta dietro di noi ma che, in realtà, potrebbe essere davanti. Gli spazi di libertà sono uguali. –
La memoria non come qualcosa di stratificato e congelato, quindi, ma come terreno fertile dove sperimentare, dall’interno, per guardare oltre, declinando trasversalmente il concetto stesso di memoria.
Questo è il punto di partenza di Beatrice. Una storia ritrovata, work in progress che parte da lontano e trova conferma nella nostra contemporaneità.
Le vicende biografiche di Beatrice Cenci (Roma 1577-1599) entrano nel tessuto storico stesso della città di Roma. Pagine scritte che gradualmente scivolano da realtà a leggenda.
La giovane nobildonna è una figura molto amata, sia dai suoi contemporanei, popolani e nobili che fossero, sia nel tempo – anni, secoli – da chiunque si sia imbattuto nel suo dramma.
Il suo vivere e morire, vittima di un padre violento, la fanno assurgere a simbolo di forza interiore, di strenua battaglia al femminile contro un destino innaturale. La giustizia ai posteri.
Beatrice è una figura moderna, contemporanea, che urla la sua disperazione. Mangia, vive, sogna come tutte le fanciulle della sua età, nell’ambiente privilegiato della nobiltà romana finché il padre-padrone, il conte Francesco, indebitato e processato per “colpe nefandissime”, per non pagare la sua dote decide di segregarla nella rocca di Petrella Salto, insieme alla seconda moglie Lucrezia. L’abuso, le violenze fisiche e psicologiche, sono parte della storia. Come pure il tormento di questa giovane donna che viene condiviso dalla matrigna e dai due fratelli Giacomo e Bernardo, che con lei saranno accusati dell’assassinio di Francesco Cenci, e dal castellano Olimpio Calvetti che, innamorato di Beatrice, con la complicità del contadino Marzio Catalano, avrebbe colpito a morte la vittima-carnefice nel suo letto, per poi buttarlo dal balcone simulando una morte accidentale.
Le autorità del tempo giudicano colpevole Beatrice, la matrigna Lucrezia e il fratello Giacomo, complici dell’assassinio del conte, ottenendo la grazia solo per il più giovane Bernardo Cenci. Al patibolo Beatrice Cenci salirà l’11 settembre del 1599 sulla piazza di Castel Sant’Angelo. Come nella ritualità delle condanne a morte, anche la sua morte consumata tra un pubblico commosso e partecipe entrerà non solo nella memoria collettiva, ma diventerà possibilità stessa di redenzione per l’intera cittadinanza.
La spada lunga 101 cm. con cui il boia Mastro Alessandro Bracca decapita la giovane è conservata nelle sale del Museo Criminologico di Roma. Accalcati tra la folla, pare che fossero presenti anche artisti noti del tempo, i Gentileschi – padre e figlioletta – e Caravaggio. Due secoli dopo, una mattina del 1798, un altro pittore – Vincenzo Camuccini – sarà testimone nella chiesa di San Pietro in Montoro, dove erano stati sepolti i resti di Beatrice, alla profanazione della sua tomba da parte di un gruppo di soldati francesi che facevano parte delle truppe francesi di occupazione. Beatrice non ha conosciuto pace. La leggenda vuole che ancora oggi una figura spettrale si aggiri nei dintorni del luogo dell’esecuzione.
Una cosa è certa, quella di Beatrice Cenci è una storia che, cinquecento anni dopo, continua ad alimentare la mente creativa di scrittori, registi, artisti. Il grande schermo, in particolare, si è appropriato della sua storia fin dal 1908, da registi come Alber Capellani, Lucio Fulci, Bertrand Tavernier, affascinati o, forse, ossessionati dal suo dramma. Ma anche Stendhal, Artaud, Studio Azzutto e, prima ancora, Guido Reni, a cui è attribuito il celebre ritratto conservato alla Galleria Nazionale di Arte Antica in Palazzo Barberini di Roma.
Franco Cenci parte dalle ricerche d’archivio, in un confronto costante con altri piani di lettura.
– Sono sempre molto aperto ai contributi vicini e lontani, afferma, ho fatto interpretare la storia anche dalle mie figlie Matilde e Anita, con disegni e illustrazioni. Sono loro, poi, le protagoniste dei miei ritratti fotografici. –
L’artista sceglie di affidare il suo racconto personale al dialogo tra due linguaggi diversi, la fotografia e la scultura in ceramica.
Dieci fotografie, dieci sculture in ceramica. Una sorta di “Via Crucis” laica, dove il viaggio è una cifra riconoscibile della metafora psicologica di un sentimento, di un’emozione.
Ricorrere ad un duplice linguaggio che colloca l’osservatore in mezzo, vuol dire anche renderlo complice nell’assunzione di responsabilità nei confronti della storia stessa.
Da un lato ci sono i ritratti fotografici che traducono visivamente la violenza: l’innocenza della giovanetta, il suo volto puro che si trasforma in una maschera di dolore. Il close-up sfiora i pori della pelle illuminata: tutt’intorno è buio. La lezione di Caravaggio c’è, inevitabilmente, anche nello sguardo dell’autore che assimila, se pure inconsciamente, il messaggio del Maestro della Luce.
– Si trattava di dare forma, corpo alle presenze. Partendo dalle fotografie – seguendo così un percorso inverso – ho simulato i disegni. Un percorso che si è ampliato andando ad includere la manipolazione. Manipolare vuol dire anche ricreare la realtà dandogli forza. –
Accanto ai ritratti fotografici Franco Cenci esplora il paesaggio utilizzando, ancora una volta, la fotografia a colori. Paesaggi aperti che si sviluppano orizzontalmente inquadrando la natura, la campagna dei dintorni di Roma, con le sue colline e gli ulivi piantati seguendo schemi regolari.
Non è un paesaggio solare ma, avvolto com’è nelle nebbie delle prime luci del mattino, rimanda a quel senso di precarietà, d’incertezza, che doveva aver accompagnato il mesto viaggio di Beatrice da Roma a Petrella Salto e viceversa. Ma è anche una pausa emotiva, una via di fuga mentale. L’artista chiede a se stesso, rivolgendo la domanda all’osservatore, quali possano esser stati i sentimenti profondi di quella ragazza vissuta tanto tempo fa, ma che potrebbe essere una teenager di oggi. Malgrado tutto, il paesaggio stesso ha mantenuto una sua autonomia rispetto agli stravolgimenti della storia. Una natura positiva – in qualche modo salvifica – in cui riporre fiducia.
Il terzo passaggio nella ricerca artistica è accompagnato dalle sculture in ceramica realizzate con la collaborazione di Fosco Gentili, maestro ceramista di Canino (Viterbo). La formula adottata ricorda quella degli ex-voto, con un’iconografia immediata che attraverso paragrafi della storia garantiscono una narrazione fluida. La storia, quindi, ha una sua circolarità attraverso un racconto che è unitario, ma anche zoomato. Come, poi, la morte collettiva offriva a tutti la possibilità di redenzione, la forma dell’ex-voto a cui allude l’artista è esso stesso simbolo di grazia ricevuta. Chissà che la morte di Beatrice Cenci non sia stata del tutto invana.
– Ho cercato di dare una forma cronologica e ordinata alla storia, muovendomi alla ricerca di qualcosa di simbolico, stigmatizzandola in dieci episodi che ho disegnato più volte, sia attraverso illustrazioni che collage, che il ceramista ha trasposto liberamente nella creta. Fosco Gentili è uno straordinario artigiano, gli ho lasciato piena libertà nell’interpretare la storia. Trovo perfetta la scelta di ispirarsi alla ceramica medievale. Come in tutte le tragedie, all’inizio non si ha percezione di quello che il futuro ci riserverà. Nella prima formella Beatrice raccoglie fiori nel giardino della sua abitazione romana. Il secondo episodio è quello del ballo che simboleggia la sua integrazione nella vita cittadina. Poi nella terza e quarta formella le prime violenze, il padre che picchia Beatrice a cui fa seguito il suo allontanamento dalla città e la reclusione nel castello di Petrella del Salto. Nella quinta c’è l’incontro con il guardiano, servente del padre che le dà quella minima attenzione che la gratifica, per cui l’amore; di nuovo torna la violenza con l’uccisione del padre. Le torture sono il momento successivo, mentre l’ottavo episodio è il passaggio nella città sul carro con il fratello Giacomo, accanto a lei, che viene scorticato vivo. La fine di questa indicibile sofferenza con l’esecuzione. Infine il giacere dopo l’esecuzione della morte, come una bella addormentata: i romani trovarono Beatrice ancora più bella da morta che da viva. –
Una sorta di percorso cristologico al femminile che vede l’intera storia sottoposta a quella rilettura simbolica posta in atto da subuto nella memoria colletiva. Beatrice Cenci era già fantasma quando era viva. La sua storia non ha niente di lineare e accertato, è sempre spiazzante.