di Santa Nastro – Art Tribune
Il gioco e la grafica nelle opere di Franco Cenci, tra ironia e memoria storica. Una intervista che racconta il suo percorso artistico e i suoi progetti futuri. Con un progetto nel cassetto a San Siro.
Una tesi su Antonio Donghi, poi gli studi di Grafica allo IED di Roma, e successivamente la militanza nella Mail Art. Questo racconta in breve la biografia di Franco Cenci (Monterotondo, 1958; vive a Roma). Lo abbiamo incontrato per parlare di gioco e di un progetto che vorrebbe portare nello stadio di San Siro.
Il tuo ultimo progetto, GladiAttori, si concentra intorno al tema del gioco. Da dove parte questa ricerca?
Il gioco è legato a una dimensione favolosa, ha bisogno di uno spazio lontano dal quotidiano e di un tempo che non sia quello dell’età adulta. Si contrappone spesso a razionalità e serietà, ed è prossimo a ironia e poesia che sono i valori che rincorro sempre nei miei progetti. Quando, per quest’ultima mostra, ho deciso di lavorare sul tema del calcio, è stato inevitabile indagare l’essenza del gioco. Ma anche nella precedente mostra Last Flight del 2016 avevo ideato dei veri e propri giochi, dei rompicapo che interrogavano il visitatore sulle vite dei miei artisti preferiti.
Certo, non si può dimenticare il ruolo che ad esempio svolge il gioco del calcio nella nostra società. C’è anche una componente di analisi o di critica sociale nel tuo lavoro?
No, assolutamente no. Sono due le componenti di questo progetto: una è la memoria storica, cioè torno indietro nel tempo e ricostruisco un passato di memorabilia, oggetti che somigliano fino a confondersi con quelli della mia infanzia o comunque di un tempo passato. In GladiAttori ci sono puzzle, teche, ricami. La cosa spiazzante è che tutto è finzione, tutto è falso e invece appare come vecchio e antico. Nel 2013 per Beatrice, una storia ritrovata, avevo realizzato dei disegni a matita, e apposto un timbro papale di una Accademia inventata, e così chi li vedeva era convinto che si trattasse di disegni secenteschi del fratello di Beatrice Cenci, Bernardo, e mi chiedeva: “Vabbè ma tu cosa hai fatto?”.
Accanto a questa ricerca filologica che trasforma il falso in vero, c’è poi una seconda componente, che al contrario fa apparire il reale mera apparizione, una galleria di ritratti fotografici di ragazzi che rimandano a un mondo di sogno, di fantasia. In Fan Club i ragazzi sono essi stessi proiettati in una dimensione onirica, sdraiati su un letto, se ne scorge solo la sagoma avvolta nelle coperte, scopriamo, attraverso uno specchio, che stanno giocando a loro volta.
Nella tua ultima mostra, a cura di Manuela De Leonardis, hai addirittura paragonato, implicitamente, i calciatori ai gladiatori romani, mettendo il focus sulla città in cui vivi. Questo paragone che Roma racconta?
Nell’Antiquarium Alda Levi, dove si è svolta la mostra, si trova una stele molto bella che racconta la vita di un gladiatore, il paragone con i calciatori della stagione d’oro dei successi milanesi targati Rocco e Herrera, è nato immediatamente. Se guardiamo i corpi tatuati dei calciatori del XXI secolo, pensiamo immediatamente al gladiatore-galeotto che combatteva nelle arene dell’antica Roma. Un filo che lega tutta la storia dell’umanità
Quanto la tua esperienza di grafico pubblicitario influisce sul tuo lavoro?
Tanto. Negli Anni Novanta lavoravo da pittore, da fabbro, da falegname, ora mi servo di computer, lavoro con Photoshop, stampo digitalmente. Però ho capito che la mia poetica, chiamiamola così, nasce dall’incontro di tutte le tecniche, mi piace servirmi di tutti i linguaggi. Non voglio chiudermi dentro una cifra rigida, riconoscibile, non perseguo un prodotto monolitico.
La tua ricerca ha attraversato diverse fasi con molteplici serie. Puoi tracciarne una evoluzione? Quali sono stati i momenti per te più significativi?
Parto sempre da progetti e sono progetti che non si esauriscono con la data della mostra, continuo ad aggiungere opere, pezzi. Il primo progetto è stato “Beatrice… una storia ritrovata” (nato nel 2005) dove, giocando con il mio cognome, fingevo ascendenze storiche come quelle dalla celebre Beatrice. Presentavo pseudo-disegni di famiglia, cartoline, ritratti, e poi ceramiche che, eseguite da un valente ceramista di Canino, Fosco Micheli, reinterpretavano i miei disegni. Mi muovevo lungo la sottile soglia che separa verosimile da vero. In Armata innocenza i riferimenti sono letterari, due libri, Les enfants terribles di Cocteau e I ragazzi della via Pal di Molnár. Anche lì tanti giochi come
quelle armi surrealiste messe in mano ai fanciulli. Altra serie è i Ritratti volanti che nasce nel 2010 e, sotto forma di volatili, confeziono i ritratti di amici e conoscenti, sono collages, ma dai collage nascono disegni e ceramiche.
Chi sono i tuoi compagni di strada?
I miei grandi amori, quelli che donano la bellezza, non posso vivere senza la grande bellezza: Picasso, Matisse, Chagall, Depero ma anche Donghi e Gianni Colombo. Uno zio è sicuramente Boltanski, che ha la forza di sorprendermi ogni volta.
Puoi anticiparci qualche tuo progetto futuro?
Mi piacerebbe tantissimo che GladiAttori, rivista e corretta, finisse nelle stanze del Museo San Siro di Milano. Poi sto lavorando a un’altra idea, La prima stanza: raccolgo storie e ricostruisco, con piccoli plastici e foto, le stanze di infanzia di amici e persone che incontro.